C’è un momento in cui le certezze iniziano a vacillare, anche quando i numeri sembrano dire il contrario. Gli indici salgono, i media parlano di record, eppure dietro le quinte qualcosa si muove. È quel rumore sordo che solo chi guarda oltre i titoli sa riconoscere. E proprio adesso, quando tutti sembrano tranquilli, alcune tra le maggiori banche di affari globali iniziano a mettere in guardia.
L’apparenza è rassicurante. I mercati galoppano, le aziende annunciano utili solidi e le banche centrali, pur con i loro limiti, restano vigili. Eppure, qualcosa stona. I più attenti hanno iniziato a porsi una domanda scomoda: se tutto sembra andare per il meglio, perché i grandi investitori stanno riducendo la loro esposizione?
Non è una questione di pessimismo, ma di realismo. Perché quando le valutazioni si spingono troppo in alto, il rischio di un ritorno alla media diventa concreto. E sebbene il lungo termine premi la pazienza, il breve termine sa essere crudele.
Le risposte non sono mai scontate. E proprio per questo vale la pena capire da dove arriva questa cautela.
Oggi l’S&P 500 mostra un rapporto prezzo/utili di circa 25, ben oltre la sua media ventennale. Ancora più estremo è il CAPE ratio, che ha superato quota 36: un livello toccato solo prima di crolli storici come quello del 1929 o del 2000. Questi dati non provengono da voci catastrofiste, ma dalle stesse istituzioni che, fino a ieri, soffiavano sul fuoco dell’entusiasmo.
Il secondo segnale arriva dal mondo obbligazionario. I Treasury americani offrono oggi rendimenti intorno al 4,4%. In un contesto simile, molti investitori iniziano a chiedersi se abbia senso rischiare sull’azionario quando ci sono alternative più sicure e remunerative.
Infine, pesa il fattore psicologico. Il mercato sembra in fase euforica: previsioni di crescita sempre più ottimistiche e capitali che si riversano in pochi titoli vincenti. Tutto questo ha spesso preceduto periodi di forti correzioni. E non serve un evento estremo: basta una piccola delusione per far partire la reazione a catena.
Nonostante tutto, c’è un dato difficile da ignorare. Negli ultimi cento anni, il mercato azionario americano (gli altri mercati mostrano correlazione al 76%) ha prodotto rendimenti positivi nell’80% dei casi su un orizzonte di 10 anni e nel 97% su 20 anni. Numeri che non raccontano solo guadagni, ma resilienza.
Grandi investitori come Warren Buffett e Ray Dalio continuano a puntare su strategie solide e diversificate, ricordando che il vero rischio è uscire nel momento sbagliato. Non si tratta di restare investiti per fede, ma di capire che il tempo sul mercato, più del tempismo perfetto, è ciò che ha fatto la differenza in tutte le crisi passate.
Anche dopo momenti drammatici come il 2008, chi ha saputo resistere ha recuperato e guadagnato. La volatilità è parte del gioco, ma lo è anche la ripresa. Per questo molte banche, pur indicando rischi a breve, continuano a suggerire di non abbandonare completamente l’investimento azionario.
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