Si può essere licenziati per aver assistito un familiare solo nelle ore notturne? E se qualcuno ti fotografa in spiaggia, può bastare per dire che si sta abusando dei permessi 104? Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha acceso un riflettore su un diritto spesso frainteso: quello di assistere un familiare con disabilità nei momenti più adatti alle sue condizioni, anche se questi non coincidono con l’orario di lavoro. La legge 104 non mette orari alla cura, ma a volte i datori di lavoro lo dimenticano.
Chi assiste un familiare con disabilità grave lo sa bene: non esiste una routine fissa. Le esigenze possono cambiare da un giorno all’altro e spesso si manifestano quando tutto il resto si ferma, cioè di notte. Lavorare e assistere non è semplice, e i permessi previsti dalla Legge 104 sono uno strumento indispensabile.

Tuttavia, ci sono casi in cui la legittimità dell’uso di questi permessi viene messa in dubbio, soprattutto quando non coincide con l’orario di ufficio. Ed è proprio qui che interviene la sentenza n. 23185 del 12 agosto 2025 della Corte di Cassazione, che ha chiarito un principio fondamentale: l’assistenza può essere prestata anche nelle ore notturne, e il permesso resta pienamente valido.
Permessi 104 notturni: nessun vincolo di orario per l’assistenza
La normativa di riferimento, ovvero l’articolo 33 della Legge 104/1992, garantisce al lavoratore che assiste un familiare disabile tre giorni di permesso retribuito al mese, frazionabili anche in ore. Da nessuna parte viene indicato che tali permessi debbano essere usati solo durante l’orario di lavoro. Non esiste alcun vincolo temporale rigido: ciò che conta è che l’assistenza venga effettivamente prestata.

Il caso affrontato dalla Cassazione nasce da una situazione concreta: un dipendente era stato licenziato dopo che un’agenzia investigativa, ingaggiata dal datore di lavoro, lo aveva fotografato al mare durante una giornata in cui risultava in permesso. Secondo l’azienda, quella mattinata dimostrava un uso improprio dei benefici previsti dalla legge. Tuttavia, la madre dell’uomo necessitava di cure notturne, e l’assistenza era garantita proprio in quelle ore.
Il giudice ha accolto questa versione, precisando che l’assistenza può legittimamente avvenire in qualsiasi momento della giornata, a seconda delle esigenze sanitarie del familiare. Un punto decisivo, che rafforza i diritti del caregiver e impedisce interpretazioni arbitrarie da parte dei datori di lavoro. L’orario in cui viene fornita la cura non può essere l’unico parametro per valutare la correttezza nell’uso dei permessi ex Legge 104.
Le prove contano: cosa deve dimostrare il datore di lavoro
La sentenza ha stabilito anche un principio processuale importante: è il datore di lavoro che deve provare l’abuso del permesso, non il lavoratore a dimostrare la sua innocenza. In questo caso, le indagini erano incomplete e le prove raccolte non erano state nemmeno formalmente depositate in giudizio. Le immagini scattate non dimostravano che non fosse stata prestata assistenza in altre fasce orarie, come quelle notturne.
Le indagini aziendali devono rispettare la privacy, le regole del GDPR e le linee guida del Garante. Non è sufficiente documentare una parte della giornata per trarre conclusioni. Se manca una ricostruzione precisa, coerente e legalmente valida, il licenziamento basato su presunzioni è da considerarsi nullo.
Questo orientamento della Corte rappresenta un segnale forte per tutti i lavoratori che si prendono cura dei propri cari in orari non convenzionali. Ricorda che non è l’orologio a definire la legittimità dell’assistenza, ma la reale necessità della persona che si assiste. E quando la legge riconosce questa flessibilità, ogni forzatura interpretativa rischia di trasformarsi in una grave ingiustizia.