La base della dieta mediterranea è messa alla prova dall’aumento dei prezzi; è il caso della produzione dei pomodori.
A cinque giorni dall’avvio della campagna di raccolta del pomodoro da industria, nessuno sembra essere soddisfatto dei risultati.
I produttori vedono ridursi i loro margini di guadagno ottenuti dalle lotte contrattuali con l’industria del settore. Gli industriali a loro volta temono un calo della qualità e una riduzione dei livelli produttivi.
Lo scorso anno in Italia ne sono stati prodotti sei milioni di tonnellate per un giro d’affari di 3,7 miliardi di euro. Costi di produzione, energia e fertilizzanti, hanno creato un effetto a catena che ha reso il prodotto meno competitivo, ridotto i guadagni e fatto aumentare i prezzi di circa il 15% per il consumatore finale. Tra gli aspetti che subiscono i maggiori rincari, i costi di produzione che incidono per il 18% del costo finale. A questo si aggiungono quelli dei trasporti pari al 6% del totale.
Nessuno è quindi contento delle dinamiche che si riflettono su circa 6500 imprese agricole. A causa della siccità, inoltre, le rese sono diminuite del 10% con un 5-8% di scarto in più dovuto a difetti di colorazione, causati dal caldo e dalla mancanza di acqua.
Anche il pomodoro ha un limite di temperatura oltre il quale comincia a degradarsi. Il pomodoro per passate, pelati e concentrati è coltivato su circa 70 mila ettari concentrati in particolare in Emilia, Lombardia, Campania e Puglia. L’Italia lo scorso anno è stata responsabile del 15% della produzione mondiale, un record che la porta al secondo posto nel mondo dopo la California.
Tra le altre preoccupazioni anche quelle legate alla logistica; perché questo tipo di coltura va raccolto tutti i giorni e occorre manodopera abbondante per impedire che il processo subisca rallentamenti. Il lavoro stagionale non garantisce sufficienti risorse, non mancano solo gli addetti alla raccolta ma anche i profili tecnici specializzati; tra questi carrellisti, incapsulatori meccanici, esperti della qualità.
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