È chiaro ormai, ma forse lo è sempre stato, la connessione tra economia e geopolitica è innegabile. A insegnarlo sia la Storia sia il presente.
Il destino dell’economia e le sue controindicazioni sociali sono imprevedibili. Nel medio-lungo termine è azzardato dire cosa potrebbe accadere. Non sono le tematiche economiche a incidere sul copione dell’incertezza
A pesare è la considerevole trasformazione del contesto geopolitico che si intreccia con le prospettive dell’industria, del mercato e della finanza.
Vi sono tematiche economiche come l’inflazione elevata e la probabile recessione entro un anno in America e in Europa che risentono e non poco dello scontro tra democrazie e autocrazie. Problemi che potrebbero essere affrontati più serenamente se il contesto geopolitico non fosse così incandescente.
La conferma di questo quadro ci è data dai mercati finanziari: qui la realtà appare meno cupa e allarmante rispetto a quella tinteggiata da celebri studi di analisi economica.
Le attese sulla curva dei tassi guida della Fed, rimandate nei contratti futures sui Fed Fund, affermano come l’apice sarà raggiunto in principio del nuovo anno, da lì in poi gli indici fletteranno (medesimo discorso per la curva della produttività dei government bonds Usa). Queste realtà sono fedeli rispetto a uno sfondo di decelerazione economica e probabilmente di recessione nell’anno che verrà e di concomitante arresto dei moti inflazionistici.
La situazione europea è più complessa. Questione energetica, guerra, tutto questo incide negativamente: tra imprese e consumatori spopola l’incertezza. Osservando i mercati futures i costi del petrolio dovrebbero segnare un calo, sebbene non plateale, d’altronde per il versante gas il discorso è diverso, il contesto incerto fa sì che i prezzi siano molto più variabili.
Le trasformazioni geopolitiche stanno incidendo non poco sul ciclo vitale delle economie a medio-lungo termine. I cambiamenti vincoleranno imprese ed esecutivi a virare su variazioni alle proprie azioni strategiche. Gli Usa hanno palesato una propensione espansionistica, violenta e incline all’utilizzo del mezzo militare: si veda quanto dichiarato profeticamente in precedenza dell’invasione putiniana all’Ucraina e quanto accaduto con l’ingresso a Taiwan della portavoce del congresso Pelosi (denuncia alle mire espansionistiche dello Stato cinese, confermate dalla reazione alla visita, dai grossi investimenti in tecnologia e armamenti).
Un monito dall’alto contenuto politico, un segnale per tutti i Paesi occidentali: potrebbe essere poco coscienzioso riporre speranze nella partnership tecnologica, industriale e commerciale con autocrazie che derivano consensi e poteri da azioni violenti e a suon di menzogne e tutto a scapito dei propri cittadini.
Le decisioni inerenti la pianificazione industriale e commerciale non possono non tener conto della propria anima geopolitica.
Il nostro Paese patisce la sua soggezione energetica dai Paesi esteri. Il suo sbocco sul Mediterraneo potrebbe almeno ipoteticamente mettere sul piatto maggiori soluzioni rispetto ad altri Stati europei. Si potrebbe portare avanti investimenti all’interno per ampliare le matrici energetiche e di riflesso i tassi produttivi. Sul versante export, il 30% circa del nostro Pil, il beneficio dovrebbe arrivare dall’invidiabile posizione delle nostre aziende nei mercati esteri (Usa, Francia, Germania), non soffrendo ulteriori ripercussioni dagli stravolgimenti geopolitici.
Più complicata la questione delle filiere produttive e delle correnti di import specie dalla Cina. Essenziali per il tessile e per l’abbigliamento, per i macchinari e per il chimico-farmaceutico.
Occorreranno capacità e praticità, dinamismo e coordinazione tra i reparti. Solo così la macchina potrà muoversi all’unisono sul percorso impervio delle strategie economiche e su quello ancora più burrascoso dei rapporti internazionali.
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