Tutto si muove ma nulla cambia, almeno in apparenza. La FED, i tassi d’interesse e la presenza al potere di Donald Trump stanno preparando uno scenario unico, dove finanza e politica si sfiorano pericolosamente. I mercati osservano, ma dietro l’apparente calma si nasconde un equilibrio fragile. C’è qualcosa nell’aria, e non è solo inflazione.
C’è un momento, poco prima della tempesta, in cui tutto sembra sospeso. È così anche ora. Giugno è appena iniziato e già si percepisce una tensione che non nasce solo dai numeri economici. La Federal Reserve ha davanti un bivio: continuare a tenere i tassi d’interesse fermi o iniziare a pensare a un taglio?

Intanto, Trump, oggi presidente in carica, non smette di lanciare messaggi chiari. Il suo stile diretto, spesso polemico, non risparmia nessuno, nemmeno la FED. E come già visto in passato, le sue dichiarazioni influenzano i mercati e innescano reazioni immediate. Ora, però, è tutto ancora più delicato: Trump non è solo un politico in campagna elettorale. È al governo. In apparenza è tutto sotto controllo. Ma è davvero così?
Perché la FED resta immobile, nonostante tutto
Manca poco alla prossima riunione della FED, e tutti sanno che i tassi d’interesse resteranno fermi, almeno per ora. L’inflazione non sta scendendo come si sperava: il core PCE è ancora sopra il 3% e i segnali di raffreddamento si sono affievoliti. Powell lo ha detto chiaro: serve più tempo, più dati, più conferme.

Non c’è urgenza di muoversi. Il mercato del lavoro tiene, la disoccupazione resta bassa, i salari crescono. Le borse sono alte, nessun segnale di stress nel sistema bancario. In altre parole, non ci sono emergenze. Ma ogni mese che passa senza un cambio di rotta, cresce la pressione politica.
E non è solo una questione tecnica. Il contesto sta cambiando, e lo fa in fretta. L’influenza del presidente si fa sentire anche nei toni pubblici, e la FED si ritrova sotto i riflettori.
Trump contro la FED: un conflitto che si riaccende
Donald Trump, oggi presidente degli Stati Uniti, ha già iniziato a criticare apertamente la Federal Reserve. Secondo lui, tenere i tassi così alti danneggia l’economia e rallenta la crescita americana. Ma le sue parole vanno oltre: insinua che le scelte della FED siano politicizzate o persino ostili alla sua agenda.
Il rischio è che questa narrativa apra la strada a riforme più radicali. Si torna a parlare, tra i suoi alleati, di limitare l’indipendenza della banca centrale, portandola più vicina al controllo del Tesoro. Una prospettiva che spaventa non solo Wall Street, ma anche gli investitori esteri.
E infatti, tra i grandi fondi internazionali, soprattutto europei e asiatici, si avverte un principio di allarme. Non è solo una questione di economia. È la stabilità istituzionale degli Stati Uniti a essere messa in discussione. E quando la fiducia viene meno, il capitale comincia a muoversi in silenzio.