Perché chi ha meno dovrebbe pagare quanto chi ha di più? È una domanda che molti si pongono, soprattutto quando si trovano davanti a tariffe uguali per tutti nei servizi pubblici. Alcuni Comuni stabiliscono una quota fissa per l’assistenza domiciliare o per le strutture per disabili, ignorando completamente il reddito.
Ma è davvero legittimo trattare tutti allo stesso modo, anche chi fatica ad arrivare a fine mese? Una recente sentenza del TAR ha sollevato il velo su una pratica diffusa, ma poco compatibile con l’equità sociale. E le conseguenze sono tutt’altro che trascurabili.

Chi vive una condizione di fragilità economica o sociale sa quanto possa essere difficile ottenere il giusto supporto. I servizi socio-assistenziali sono essenziali per tante famiglie, eppure, in alcuni territori, accedervi richiede un contributo economico fisso, senza alcuna valutazione personalizzata. Duecento euro al mese, sempre e comunque. È così che si creano disuguaglianze che spesso restano invisibili, ma che incidono profondamente sulla qualità della vita.
Non tutti sanno che la legge prevede uno strumento per evitare queste distorsioni: l’ISEE, ovvero l’indicatore della situazione economica equivalente. Questo parametro serve proprio a stabilire quanto ogni persona debba contribuire in base alle sue reali possibilità. Eppure, nonostante sia previsto dalla normativa nazionale, alcuni regolamenti locali scelgono di ignorarlo. Una decisione che può fare la differenza tra accedere a un servizio o rinunciarvi.
Il TAR chiarisce: niente quote fisse, l’ISEE è obbligatorio
Nel 2025, un cittadino disabile della Lombardia ha presentato ricorso contro il proprio Comune, che imponeva una quota uguale per tutti per l’accesso a servizi fondamentali. Il tribunale gli ha dato ragione. Con parole chiare, il TAR Lombardia (n. 337/2025 – 17 aprile 2025) ha stabilito che i Comuni non possono stabilire regole autonome che ignorano il criterio dell’ISEE. Secondo i giudici, ogni contributo va calcolato in modo personalizzato, considerando la situazione economica di ciascun utente.

La sentenza sottolinea che i Comuni devono attenersi alla disciplina nazionale, in particolare al DPCM 159/2013. Nessuna tariffa fissa può sostituire il principio della proporzionalità. È illegittimo pretendere lo stesso importo da chi ha un reddito elevato e da chi, magari, vive con una pensione minima. Questo vale ancora di più in presenza di disabilità, dove la valutazione deve basarsi sull’ISEE ristretto.
Una decisione che tutela i più fragili
Il significato di questa pronuncia è profondo. Non si tratta solo di una questione giuridica, ma di giustizia sociale. Imporre regole uguali a tutti non sempre garantisce equità, anzi. In ambito assistenziale, ogni persona ha una storia, una condizione, un bisogno diverso. Riconoscerlo significa offrire servizi che rispondano davvero alle necessità reali, senza creare barriere economiche insormontabili.
Ora più che mai, questa sentenza può rappresentare una svolta per chi si è sentito escluso. Offre uno strumento concreto per rivendicare il proprio diritto a un trattamento equo. E invita le amministrazioni locali a rivedere i propri regolamenti, affinché siano rispettosi della legge e della dignità delle persone.
È un messaggio forte, che guarda al futuro. Perché l’equità non è solo un principio astratto. È qualcosa che si misura nel quotidiano, nei gesti concreti.