Una definizione cambiata può sembrare solo una questione di parole, ma dietro certe modifiche legislative si muove un’intera visione della società. Quando una legge cambia le sue parole, cambia anche il modo in cui guardiamo le persone e le loro storie. Non è solo una questione tecnica, ma qualcosa che incide sulla vita quotidiana, sui diritti, sui rapporti con le istituzioni e perfino sul modo in cui ci si sente guardati dal mondo. C’è un nuovo significato, oggi, dietro l’espressione persona con disabilità. E non è una novità da sottovalutare.
C’è sempre stato un certo disagio dietro alcune parole. Termini che, pur nascendo da intenti normativi, suonavano freddi, distanti o, peggio, stigmatizzanti. Negli ultimi anni qualcosa ha cominciato a cambiare. Si è fatta strada l’idea che le parole abbiano un peso, e che la normativa debba tenerne conto.
A questo si aggiunge una crescente attenzione verso i percorsi individuali, verso la personalizzazione degli interventi e delle tutele. Non più pacchetti standard per situazioni diverse, ma soluzioni su misura che tengano conto non solo della condizione medica, ma anche dell’ambiente, delle relazioni, delle risorse disponibili.
In questo contesto si inserisce la riforma della Legge 104, con l’approvazione del Decreto Legislativo n. 62/2024, pubblicato in Gazzetta Ufficiale e già in vigore dal 30 giugno 2024. Un testo che, oltre a intervenire sugli aspetti procedurali legati al riconoscimento dell’invalidità civile, mette mano a un articolo simbolico, il cuore della legge: l’articolo 3. È qui che viene riscritta la definizione stessa di disabilità. Ed è proprio da questo cambiamento che si può iniziare a capire la portata reale della riforma.
Cambiare una definizione all’interno di una legge storica come la 104/92 può sembrare un’azione puramente formale, ma in realtà rappresenta uno spartiacque. Il termine “handicappato”, che per anni ha identificato in modo generico e a volte riduttivo una vasta gamma di condizioni, viene finalmente archiviato. Al suo posto entra in scena la persona con disabilità, una formula che mette al centro l’essere umano e non la sua limitazione.
Ma c’è di più. La nuova definizione, ispirata alla Classificazione Internazionale del Funzionamento (ICF) dell’OMS, non si concentra soltanto sul deficit, ma sul contesto. Le barriere ambientali, sociali, relazionali diventano parte integrante della valutazione. Una persona, per esempio, con una lieve disabilità motoria, può trovarsi in una condizione gravemente limitante se vive in un edificio senza ascensore o in un contesto lavorativo non accessibile.
Questo cambio di paradigma ha effetti pratici. Prendiamo il caso di Marco, 34 anni, affetto da una patologia neurologica che compromette in parte l’equilibrio. Fino a ieri, la sua richiesta di riconoscimento di invalidità si scontrava con tabelle rigide e poco sensibili alla complessità della sua vita quotidiana. Oggi, invece, la sua condizione viene analizzata attraverso un processo chiamato valutazione di base, che tiene conto del contesto abitativo, del supporto familiare, della possibilità di mantenere un lavoro.
L’obiettivo di questa nuova definizione è duplice: da un lato ridurre lo stigma, dall’altro fornire una base più equa per l’accesso ai diritti. Non si tratta di abbassare o alzare soglie, ma di guardare meglio, con più attenzione, con più umanità. Ecco perché non si può considerare questo solo un passaggio normativo: è un cambiamento culturale.
Un altro aspetto rilevante introdotto dal DL n. 62/2024 riguarda la definizione di disabilità grave, un termine che, secondo il nuovo testo normativo già in vigore dal 30 giugno 2024, viene riconosciuto non solo in base alla condizione fisica o psichica, ma anche alla necessità di un supporto continuo e globale. Viene riconosciuta come grave la situazione in cui la compromissione, singola o multipla, riduce significativamente l’autonomia personale, rendendo necessario un intervento assistenziale permanente.
Facciamo un esempio concreto. Lucia, 76 anni, vive sola in un piccolo centro. Dopo un ictus, ha perso parte della mobilità e della capacità di comunicare. In passato, il riconoscimento della disabilità grave dipendeva esclusivamente da parametri clinici. Oggi, invece, l’accertamento considera anche il suo isolamento, l’assenza di una rete familiare, l’ambiente domestico non adeguato. Tutto questo rende necessario un supporto continuativo, il che le consente l’accesso a una serie di tutele più estese.
Con la nuova definizione, cambia anche l’accesso alle prestazioni. I permessi lavorativi retribuiti, i congedi straordinari, le agevolazioni fiscali e l’assegno di accompagnamento diventano più facilmente ottenibili per chi ha effettivamente bisogno di un sostegno costante. Il processo di valutazione, inoltre, sarà gradualmente uniformato su tutto il territorio nazionale, grazie alla sperimentazione del 2025 che introdurrà il modello di valutazione multidimensionale.
Questo nuovo approccio, basato su criteri meno burocratici e più legati alla realtà della persona, potrebbe finalmente colmare molte delle disuguaglianze che esistevano tra regioni o tra singoli casi. E anche se la fase transitoria richiederà tempo e attenzione, il percorso intrapreso va nella direzione di un sistema più equo.
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