L’INPS chiedeva i soldi indietro della NASPI, ma la Cassazione ha stabilito che non lo può fare: il caso

Essere occupati solo sulla carta può bastare a cancellare il diritto alla Naspi? Una recente sentenza della Cassazione ribalta ogni certezza. Una decisione che non solo tutela chi resta senza lavoro, ma mette al centro la realtà economica di chi, pur avendo vinto una causa, resta senza mansioni, paga o prospettive concrete. Il caso affrontato è reale e riguarda migliaia di lavoratori. Finalmente, il diritto smette di far finta di niente.

Capita, più spesso di quanto si pensi, che un lavoratore venga licenziato, avvii una causa e ottenga una sentenza che gli dà ragione. Fin qui tutto bene, almeno in teoria. Il problema inizia quando quella reintegra resta solo un ordine su carta: l’azienda non esiste più, oppure si rifiuta di riaccogliere il dipendente. E nel frattempo?

Persona che chiede aiuto
L’INPS chiedeva i soldi indietro della NASPI, ma la Cassazione ha stabilito che non lo può fare: il caso-trading.it

Quella persona ha vissuto senza lavoro e ha percepito la Naspi. L’INPS, in molti casi, ha poi preteso la restituzione dell’indennità, sostenendo che quel lavoratore, almeno giuridicamente, non fosse mai stato disoccupato. Ma può davvero la forma prevalere sulla sostanza?

Questa domanda ha trovato finalmente una risposta nella sentenza n. 23476/2025 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Una pronuncia destinata a fare scuola, che mette in primo piano una verità semplice: chi non lavora, non viene pagato e non ha una funzione reale in azienda, è disoccupato. Punto. E ha diritto alla Naspi.

Quando la legge ignora la realtà, il lavoratore paga due volte

Nel caso analizzato dalla Corte, il dipendente era stato licenziato e aveva iniziato a percepire la Naspi. Solo anni dopo, una sentenza aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, ordinando la sua reintegra. Tuttavia, nessuna riammissione reale era mai avvenuta. Nonostante ciò, l’INPS aveva chiesto la restituzione della Naspi già versata, sostenendo che, formalmente, il lavoratore risultava in servizio.

giudice
Quando la legge ignora la realtà, il lavoratore paga due volte-trading.it

La Cassazione ha rigettato questa posizione, ricordando che l’articolo 38 della Costituzione garantisce tutele concrete in caso di disoccupazione involontaria. E proprio qui sta il punto: non basta un contratto teorico per negare l’accesso alla Naspi. Serve una condizione lavorativa effettiva, con mansioni, orario e retribuzione. Altrimenti, la disoccupazione è reale e va trattata come tale.

Un’azienda fallita o inadempiente non può annullare il diritto del lavoratore al sostegno economico. E il fatto che il giudice abbia disposto una reintegra non attuata non rende quel lavoratore “occupato”. In assenza di retribuzione e attività lavorativa concreta, resta lo stato di bisogno. La Naspi, quindi, non va restituita.

Una svolta che cambia il presente, non solo il passato

Anche se il caso riguardava la vecchia indennità di mobilità, la Corte ha chiarito che il principio vale per tutti gli ammortizzatori sociali attuali. Dunque, coinvolge direttamente anche chi percepisce oggi la Naspi. L’INPS non potrà più chiedere il rimborso dell’indennità nei casi in cui la reintegra non sia diventata operativa.

La decisione rappresenta una svolta culturale, oltre che giuridica: mette fine a una prassi iniqua che, fino ad ora, puniva il lavoratore due volte. Prima con la perdita del posto, poi con la richiesta di restituire un sostegno ottenuto in piena buona fede. Ora il sistema riconosce che le tutele devono basarsi su ciò che accade davvero, non su quello che la legge finge sia accaduto.

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