Quando una semplice vendita online si trasforma in un incubo, le regole del gioco cambiano. Non è solo una questione di soldi persi: è il senso di fiducia che vacilla. Le truffe più insidiose non urlano mai il loro arrivo, si insinuano silenziose nella quotidianità, travestite da normali operazioni.
A volte, basta un gesto automatico, inserire un codice, seguire istruzioni credibili, perché l’ordinario diventi una trappola.
E quando il sistema che dovrebbe proteggere non interviene, il danno diventa doppio: economico e psicologico. Non si tratta solo di rimborsi o numeri, ma di responsabilità, di regole che devono garantire protezione a chi affida il proprio denaro a un istituto. E allora, cosa accade quando le banche non fermano in tempo le anomalie evidenti?
La risposta non è scontata, ma arriva da una decisione destinata a lasciare un segno importante nel panorama finanziario.

Il racconto di questa vicenda sembra quasi incredibile per la sua semplicità: un cliente pubblica un annuncio online, riceve una risposta e si trova, nel giro di poche ore, a digitare quindici codici presso un bancomat, convinto di portare avanti la propria vendita. Invece, quei codici non trasferivano denaro per la transazione, ma ricaricavano carte prepagate intestate a un truffatore. In una giornata, 2.373 euro spariscono. La richiesta di aiuto alla banca non porta sollievo: per l’istituto, quelle operazioni erano autorizzate, quindi nessun rimborso era dovuto. Ma la vicenda non si chiude così. Entra in gioco il Collegio dell’Arbitro Bancario Finanziario di Bologna, che il 14 marzo 2025 con la decisione n. 2823 affronta la questione con un approccio diverso, mettendo sotto i riflettori le responsabilità dell’istituto. È qui che si inserisce un concetto fondamentale: quando una sequenza di operazioni appare chiaramente anomala, il sistema antifrode non può rimanere inerte.
Quando una sentenza diventa un monito: il caso che mette alla prova i sistemi antifrode
Il Collegio ABF di Bologna non si limita a riconoscere la truffa, ma sottolinea come la banca avrebbe dovuto accorgersi che qualcosa non andava. Il D.M. 112/2007, la norma che regola i modelli di rilevazione delle operazioni sospette, diventa il fulcro della decisione. Quindici operazioni su una carta in 24 ore non sono un comportamento normale: sono un segnale d’allarme che, secondo le regole, richiedeva un intervento immediato. Non bastava registrare i movimenti: serviva un blocco o almeno un approfondimento.

Il Collegio stabilisce che fino alla sesta operazione la banca non è responsabile, ma tutto ciò che viene dopo avrebbe dovuto far scattare un campanello d’allarme. Da qui la decisione di condannare l’istituto a rimborsare 1.114 euro, oltre a un contributo per le spese di procedura e una somma destinata alla Banca d’Italia. Questa scelta manda un messaggio chiaro: i sistemi antifrode devono essere proattivi e non meri osservatori passivi. Non è solo un risarcimento, ma un richiamo a rivedere come gli istituti affrontano i rischi legati a truffe da social engineering.
Oltre il rimborso: un nuovo equilibrio tra tutela del cliente e responsabilità delle banche
Questa sentenza non riguarda solo un cliente vittima di raggiro: pone un principio che può influenzare tutto il sistema. In un’epoca in cui le frodi informatiche e le manipolazioni da remoto aumentano, gli strumenti di monitoraggio devono evolversi. Le banche hanno il dovere di investire in tecnologie capaci di rilevare anomalie e agire rapidamente. Ma il caso mette anche in luce un altro aspetto: l’Arbitro Bancario Finanziario non è un tribunale lento e complesso, ma un presidio accessibile e gratuito, che permette ai cittadini di ottenere giustizia senza costi insostenibili. Questa vicenda diventa così un precedente importante, non solo per i risarcimenti, ma per la definizione stessa di responsabilità bancaria.