Un aumento atteso da tempo, capace di fare la differenza nel bilancio mensile di molte famiglie. Si parla di 660 euro in più all’anno sulle pensioni, una prospettiva che sembra già scritta ma che, a guardare meglio, nasconde più dubbi che certezze. Tra vincoli economici, bilanci pubblici in tensione e promesse ancora sulla carta, la misura appare più fragile di quanto si pensi.
La notizia ha acceso speranze concrete, soprattutto tra chi si trova ogni mese a fare i conti con spese sempre più alte. Avere qualche centinaio di euro in più ogni anno può significare molto, soprattutto per chi non beneficia di altri aiuti e si trova nella fascia media dei redditi.
Ma prima di tirare un sospiro di sollievo, è importante capire come funziona davvero questo aumento e, soprattutto, se e quando potrà diventare realtà. La proposta del governo si concentra sulla riduzione dell’Irpef, ma i dettagli fanno la differenza.
Il piano allo studio prevede un intervento sull’aliquota Irpef applicata ai redditi compresi tra 28.000 e 50.000 euro lordi l’anno. Attualmente questa fascia è tassata al 35%, ma l’obiettivo è portare l’aliquota al 33%, con la possibilità di estendere lo sconto fino ai 60.000 euro di reddito. Se approvata, la misura riguarderebbe anche le pensioni che rientrano in quella fascia, con un potenziale guadagno massimo stimato in circa 660 euro all’anno.
Non tutti i pensionati, però, beneficerebbero di questa riduzione. Chi percepisce una pensione inferiore a 28.000 euro lordi non avrebbe alcun cambiamento, perché già oggi rientra in scaglioni fiscali più bassi. Al contrario, chi ha una pensione di circa 35.000 euro lordi potrebbe ottenere un beneficio netto di circa 300 euro annui. Il vantaggio cresce con l’aumentare del reddito, ma resta proporzionale alla parte di pensione soggetta alla nuova aliquota.
In questo scenario, anche piccoli aumenti possono avere un impatto significativo sulla quotidianità. Tuttavia, l’effettiva entità del beneficio dipende da molte variabili. Non si tratta di una cifra automatica o uguale per tutti, ma di un calcolo fiscale basato sul reddito complessivo. Inoltre, va ricordato che i risparmi indicati si riferiscono a importi annui, che si traducono in un aumento mensile contenuto, spesso di poche decine di euro.
Il problema principale riguarda la sostenibilità economica della misura. Una riduzione dell’Irpef, anche solo di due punti percentuali, comporterebbe una perdita di gettito per lo Stato stimata in miliardi di euro. In un momento in cui la legge di Bilancio deve già coprire spese importanti come sanità, lavoro, contratti pubblici e rivalutazioni pensionistiche, trovare spazio per un taglio fiscale strutturale diventa complicato.
Non a caso, l’intervento inizialmente previsto per il 2025 è stato rinviato al 2026. Il governo ha chiarito che non ci sarà alcuna riduzione delle imposte senza coperture solide e durature. Questo significa che ogni euro “restituito” ai cittadini deve essere compensato da un’entrata alternativa o da un risparmio strutturale.
A pesare sulla fattibilità della riforma ci sono anche i vincoli europei. Le regole di bilancio impongono limiti alla spesa pubblica e al disavanzo. Qualsiasi deviazione può generare sfiducia nei mercati finanziari e innescare reazioni negative. Per questo motivo, il taglio dell’Irpef resta una misura teorica finché non si definiscono le fonti per finanziarla in modo stabile.
Nel frattempo, chi attende l’aumento della pensione deve fare i conti con l’incertezza. Nulla è ancora stato approvato, e ogni decisione dipenderà dallo spazio fiscale disponibile nei prossimi mesi. Il rischio è che la promessa venga rimandata ancora, trasformandosi in un’aspettativa che slitta di anno in anno.
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