Può un dipendente essere licenziato se, pur in malattia per depressione, viene visto fuori casa? Non basta osservarlo per giudicare. Le regole sono più sottili di quanto si pensi. Uscire non equivale a fingere, ma alcune attività possono mettere a rischio il posto. Cosa dice davvero la legge? Tra obblighi di reperibilità e libertà di movimento, la giurisprudenza ha già tracciato una linea. E le sorprese non mancano.
Una persona in malattia per depressione può sembrare in grado di condurre una vita normale. A volte esce, incontra qualcuno, prende un caffè.

Questo basta per dire che sta bene? La risposta, almeno secondo i giudici, è no. Non è raro che uscire, in alcuni momenti della giornata, faccia parte del percorso terapeutico. Ma tutto cambia se si superano certi limiti.
Nel tempo, diversi casi hanno mostrato quanto sia facile per un comportamento apparentemente innocuo diventare oggetto di una contestazione disciplinare. A far discutere non è l’uscita in sé, ma il tipo di attività svolta. E, soprattutto, quanto questa sia coerente con lo stato psicologico dichiarato nel certificato medico.
Quando il comportamento del lavoratore in malattia per depressione diventa rischioso
Per chi è in malattia per depressione, le regole di base non cambiano: bisogna restare reperibili durante le fasce orarie previste dalla legge, al fine di permettere eventuali controlli. Queste sono attualmente dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19, anche nei giorni festivi. Fuori da questi orari, non esiste un divieto assoluto di uscire. Tuttavia, ciò che si fa in quelle ore può avere un peso importante.

Uscire per fare la spesa, vedere un amico o passeggiare è, in linea generale, considerato compatibile con uno stato depressivo. Ma se si partecipa a eventi pubblici, si svolgono attività faticose o si lavora altrove, la situazione cambia completamente. In quei casi il licenziamento per depressione può essere legittimo, perché si presume che l’attività sia incompatibile con la patologia e possa ostacolare la guarigione.
La Cassazione, con più sentenze (tra cui la n. 9647/2021), ha stabilito che per licenziare un dipendente in malattia non basta dimostrare che ha lasciato casa. È necessario provare che l’attività svolta contraddice le condizioni di salute descritte nel certificato medico. Il datore di lavoro, quindi, deve documentare il comportamento e collegarlo a una violazione degli obblighi contrattuali, come la buona fede e la correttezza.
Un esempio concreto? In una recente sentenza della Corte d’Appello di Roma, è stato assolto un dipendente che, pur uscendo ogni giorno, frequentava solo contesti familiari e tranquilli. Non c’era alcuna prova che quelle uscite interferissero con la sua guarigione. Al contrario, un altro caso ha visto confermato il licenziamento per un lavoratore che, seppur in malattia per disturbo depressivo, partecipava a eventi sportivi di rilievo, incompatibili con il suo stato.
Insomma, ogni situazione ha la sua storia. Il confine tra lecito e illecito non è segnato da un divieto fisso, ma da un equilibrio tra diritti e doveri. Il diritto alla cura e alla riservatezza va sempre rispettato, ma ciò non esonera il lavoratore dal comportarsi con trasparenza. La malattia per depressione non è un vuoto normativo, ma un ambito dove giurisprudenza e buon senso devono camminare insieme.