In tanti ci credono davvero: nel 2026 la legge Fornero potrebbe lasciare il passo a nuove regole pensionistiche che cambiano il destino di molti lavoratori. Le promesse sono tante, i titoli sui giornali si rincorrono, ma la realtà è più sfumata di quanto sembri.
Alcune misure potrebbero anticipare l’uscita dal lavoro anche di tre anni, ma non per tutti. In ballo ci sono nuove soglie, penalizzazioni ridotte e requisiti più flessibili. Le certezze però restano poche, e la prudenza è d’obbligo. Prima di cantar vittoria, conviene capire bene chi davvero potrà beneficiarne e chi invece dovrà fare ancora i conti con i paletti della riforma Fornero.
Parlare di pensione oggi è come camminare su un terreno che cambia forma di continuo. Per tanti, la fine della carriera lavorativa sembra ancora troppo lontana, nonostante gli anni passino e i contributi si accumulino. Ma il 2026 potrebbe rappresentare una finestra di opportunità concreta. Alcune proposte sono già sul tavolo e potrebbero diventare legge con la prossima manovra economica. Tra queste, la possibilità di andare in pensione a 64 anni o con 41 anni di contributi senza attendere i 67 previsti dalla normativa attuale. Non si tratta di promesse vaghe, ma di proposte in discussione concreta, soprattutto se legate all’equilibrio dei conti pubblici. Ma le nuove formule non saranno uguali per tutti e, come sempre, saranno i dettagli a fare la differenza.
La legge Fornero resterà il punto fermo per milioni di lavoratori, anche nel 2026. I requisiti per la pensione di vecchiaia, con 67 anni e almeno 20 anni di contributi, non sono in discussione. Così come l’anticipo pieno, che richiede quasi 43 anni di versamenti per gli uomini e 41 e 10 mesi per le donne. Tuttavia, le nuove ipotesi in fase di studio potrebbero creare canali alternativi che permettano di uscire prima dal mondo del lavoro, seppur con qualche sacrificio economico.
Una delle misure più concrete riguarda la cosiddetta quota 41 flessibile: la possibilità di andare in pensione con 41 anni di contributi e almeno 62 anni di età, subendo una penalizzazione dell’assegno pari al 2% per ogni anno di anticipo rispetto ai 66 anni. Così, chi decide di smettere a 62 anni affronterebbe un taglio massimo del 10%, una riduzione molto più contenuta rispetto a quella derivante dal ricalcolo contributivo integrale. Un esempio? Un lavoratore con 62 anni e 41 anni di contributi potrebbe uscire due anni prima rispetto ai requisiti Fornero, mantenendo una pensione solo leggermente ridotta.
Un’altra novità in arrivo riguarda l’uscita a 64 anni, che oggi è permessa solo a chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995 e ha una pensione contributiva pari almeno a tre volte l’assegno sociale. Le nuove proposte puntano a rendere questa opzione accessibile anche a chi ha una carriera mista, a condizione di avere almeno 25 anni di contributi e un importo pensionistico sufficiente.
Non tutti, però, riusciranno a raggiungere la soglia richiesta. Per questo, si stanno studiando soluzioni integrative. Due le alternative più discusse: integrare l’assegno pensionistico con una rendita da fondo pensione oppure trasformare il TFR in una rendita mensile, rinunciando alla liquidazione in un’unica soluzione. Questo permetterebbe di colmare la distanza dalla soglia minima richiesta e accedere comunque al pensionamento anticipato.
La legge Fornero quindi non sparisce, ma viene affiancata da strumenti nuovi, pensati per dare una chance in più a chi ha lavorato a lungo e ha già una carriera solida alle spalle. Ma la vera sfida sarà capire se queste aperture saranno davvero strutturali o solo misure tampone, destinate a durare un anno. Il 2026 si avvicina: sarà davvero un anno di svolta per la previdenza italiana o solo un’altra illusione.
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