Quando l’amore finisce, c’è chi cerca di farsi restituire ogni centesimo speso durante la convivenza. Ma davvero un coniuge può chiedere all’altro il rimborso delle spese familiari? Una recente sentenza del Tribunale di Milano ha risposto in modo netto, stabilendo che le uscite sostenute da uno solo dei due, anche per anni, non danno diritto ad alcun rimborso. È solo un dovere, non un prestito. E chi pensa di “fare i conti” alla fine del matrimonio, dovrà ricredersi.
In molte famiglie, uno dei due partner lavora e l’altro si occupa della casa e dei figli. È una scelta condivisa, spesso tacita, che tiene in piedi un’intera organizzazione familiare.

Ma cosa succede quando il matrimonio si rompe? C’è chi comincia a guardare le spese fatte con altri occhi: vacanze, bollette, affitto, tutto messo sul conto cointestato, tutto pagato da uno solo. In quei momenti, è facile trasformare l’aiuto in un credito, cercando di ottenere indietro quanto versato. Ma è davvero possibile?
Una recente decisione del Tribunale di Milano ha affrontato un caso emblematico, chiarendo cosa dice il diritto quando un coniuge pretende il rimborso di quanto ha speso per tutta la famiglia.
Le spese familiari non danno diritto a un rimborso
Il caso nasce dalla richiesta di un uomo che, in fase di separazione, ha chiesto alla moglie la restituzione di tutte le somme spese per la famiglia nel corso degli anni. Sosteneva di essere stato l’unico a lavorare, mentre la moglie si dedicava esclusivamente alla casa. Il denaro, confluito su un conto cointestato, veniva usato per ogni esigenza quotidiana: bollette, alimentari, vestiti, vacanze.

Il Tribunale ha però respinto ogni richiesta. I giudici hanno spiegato che le somme spese non erano un prestito, ma l’adempimento del dovere di contribuzione previsto dall’art. 143 del Codice Civile. Non c’è diritto alla restituzione, perché ciascun coniuge contribuisce secondo le proprie possibilità: chi lavora, con il reddito; chi sta in casa, con il lavoro domestico e la cura della famiglia. Anche se non retribuito, questo impegno ha un valore fondamentale.
La solidarietà coniugale, secondo la Corte (sentenza n. 3810 del 10 maggio 2025, emessa dal Tribunale Ordinario di Milano – Sezione V Civile) , non può essere trasformata in un rapporto economico tra creditori e debitori. Le spese sostenute per la famiglia non si contabilizzano alla fine di una relazione, perché fanno parte di un progetto condiviso.
Il matrimonio non è un contratto tra soci
Secondo i giudici, pretendere un rimborso delle spese familiari significa fraintendere il senso stesso del matrimonio. Non si tratta di un rapporto contabile, dove ogni euro speso diventa un debito da saldare. È invece una forma di cooperazione, in cui ognuno dà secondo ciò che può, e riceve secondo ciò che serve. L’uso del conto cointestato è stato interpretato come ulteriore prova dell’intento comune: non un prestito, ma una gestione condivisa.
Anche le norme sul regime patrimoniale, come la comunione o la separazione dei beni, non cambiano questa impostazione. A confermarlo sono le interpretazioni della giurisprudenza italiana. Il coniuge che ha contribuito economicamente,infatti, ha solo rispettato il proprio ruolo, tanto quanto l’altro coniuge che si è occupato della casa e dei figli.
In un momento in cui le relazioni si fanno fragili, e le separazioni aumentano, questa sentenza diventa un punto fermo. Non tutto può essere trasformato in cifre. E forse, riconoscere il valore di ciò che non si vede, tempo, cura, presenza, è la chiave per un confronto più equo, anche quando l’amore finisce.