E se la vera instabilità economica stesse arrivando proprio adesso, mentre tutti parlano di ripresa? L’inflazione scende, i tassi calano, eppure qualcosa non torna. Si avverte una tensione di fondo, come se il sistema globale stesse trattenendo il fiato.
Il termine “crisi economica 2025” è tornato a circolare nei briefing riservati delle grandi banche d’investimento. E stavolta, a preoccupare non sono solo i soliti numeri, ma il contesto più ampio.

Sotto l’apparente normalità, si muovono squilibri meno visibili ma più profondi: debiti irrisolti, mercati eccessivamente euforici, tensioni commerciali crescenti. E poi, l’impatto dei dazi, che proprio in questi mesi stanno tornando a dividere le principali potenze. Non è più solo una questione di economia: è una partita geopolitica, e nessuno vuole davvero scoprire le carte troppo presto.
L’anno in corso si apre con un quadro economico misto. Da un lato, il calo dell’inflazione sta dando respiro a famiglie e imprese. Le banche centrali hanno avviato una graduale discesa dei tassi, alimentando la sensazione che il peggio sia passato. Dall’altro, diversi osservatori notano che la crescita resta debole, disomogenea e piena di incognite. E questo clima, più che rassicurare, inquieta.
Tra 2026 e 2028 si concentra il rischio maggiore
Secondo numerosi analisti, i prossimi anni rappresentano una fase di particolare esposizione. La crisi economica, se dovesse arrivare, avrebbe probabilità maggiori di manifestarsi tra il 2026 e il 2028. Non per un singolo evento, ma per l’accumulo di fattori di pressione. Uno su tutti: il debito globale.

Oltre il 330% del PIL mondiale, un dato che non accenna a ridursi. USA, Cina, Giappone, Italia: nessuno è fuori dal radar. Anche con tassi più bassi, il fardello resta difficile da sostenere, soprattutto se accompagnato da crescita debole e tensioni politiche.
Nel frattempo, tornano ad affacciarsi le guerre commerciali. In particolare, gli Stati Uniti stanno valutando nuovi dazi verso la Cina su prodotti high-tech e veicoli elettrici. L’Europa, da parte sua, mostra segnali di inasprimento sulle importazioni legate a settori strategici. Se queste misure dovessero intensificarsi, il rischio di una frammentazione commerciale globale diventerebbe concreto. E meno commercio significa meno crescita.
A complicare il quadro, si aggiunge il possibile scoppio di bolle speculative. I mercati finanziari, sospinti dall’entusiasmo per l’intelligenza artificiale e la green economy, presentano valutazioni che molti analisti giudicano irrealistiche. Le somiglianze con il clima pre-crisi del 2000 non mancano.
E poi c’è il settore bancario, che continua a mostrare segnali di debolezza. I casi Silicon Valley Bank e Credit Suisse non sono stati solo incidenti isolati, ma la prova che in uno scenario di tassi fluttuanti, anche istituti considerati solidi possono trovarsi in difficoltà.
Un nuovo 2008 o un terremoto diverso?
La grande paura non è tanto che si ripeta un evento identico al 2008, quanto che arrivi qualcosa di diverso ma ugualmente destabilizzante. Le previsioni di istituti come Bridgewater parlano di un “grande riallineamento” entro il 2030, mentre Morgan Stanley avverte: tra il 2026 e il 2027 potrebbe arrivare una correzione significativa nei mercati, spinta da fattori più politici che finanziari.
Il vero nodo potrebbe essere proprio questo: l’intreccio sempre più stretto tra economia e geopolitica. Le elezioni americane del 2024, la leadership cinese, le nuove frizioni internazionali stanno ridefinendo i rapporti di forza. E ogni cambiamento strategico può avere impatti economici enormi.
Il rallentamento dei tassi è una buona notizia, ma non basta. Perché se il sistema resta vulnerabile a una guerra, a una crisi diplomatica o a un default, allora la domanda torna a farsi urgente: si sta davvero andando verso la stabilità, o si sta solo guadagnando tempo prima del prossimo grande scossone?