Indennità di accompagnamento: posso davvero essere costretto a restituirla?

Ti è mai capitato di ricevere una comunicazione dall’INPS che ti ha tolto il respiro? Immagina di leggere nero su bianco che devi restituire una somma che pensavi fosse legittima. Parliamo di qualcosa che va oltre la burocrazia: è la sicurezza che vacilla, è il senso di ingiustizia che ti bussa alla porta.

L’indennità di accompagnamento nasce per aiutare, ma può anche trasformarsi in un problema inaspettato. Una vicenda concreta ci aiuta a capire quanto possa essere sottile il confine tra diritto e obbligo.

Persona preoccupata
Indennità di accompagnamento: posso davvero essere costretto a restituirla?-trading.it

Giuseppe ha 72 anni, vive con poco e riceve da anni l’accompagnamento per la sua invalidità. Un giorno, nella sua cassetta della posta, trova una lettera dell’INPS. All’inizio pensa a un aggiornamento, ma il contenuto lo spiazza: l’ente gli chiede di restituire l’indennità di accompagnamento ricevuta per diversi mesi. Niente spiegazioni chiare, solo numeri e scadenze. Giuseppe, confuso e amareggiato, si sente colpevole senza sapere perché. Ha sempre comunicato tutto, non ha nascosto nulla. E ora si chiede: è possibile davvero che l’INPS possa fare una richiesta del genere?

Quando l’INPS può chiedere la restituzione

L’INPS può avviare controlli per verificare se chi riceve l’indennità rispetta ancora i requisiti. E se, a seguito di una revisione o di una visita medica, emerge che la persona non è più nelle condizioni previste dalla legge, allora può procedere con la revoca del beneficio.

Persona preoccupata che legge news sul web
Quando l’INPS può chiedere la restituzione-trading.it

In certi casi può anche richiedere le somme già versate, se ritiene che il pagamento sia stato indebito. Questo può succedere anche dopo anni, magari a causa di un ricovero ospedaliero non comunicato o di un errore nei dati.

Se, infatti,  il ricovero dura più di 29 giorni consecutivi in una struttura pubblica e a carico del Servizio Sanitario, l’indennità di accompagnamento va sospesa, e bisogna comunicarlo entro 30 giorni. Se questo passaggio viene dimenticato, anche in buona fede, l’INPS può accorgersene in seguito e chiedere la restituzione delle somme erogate durante quel periodo.

Tuttavia, non sempre queste richieste sono corrette. Può capitare che sia stato l’ente stesso a commettere un errore o a non aggiornare in tempo le informazioni. In questi casi, il cittadino ha il diritto di fare ricorso. L’importante è non restare fermi: rivolgersi subito a un CAF, a un patronato o a un avvocato può fare davvero la differenza.

Difendersi è possibile, ma serve agire

Giuseppe ha deciso di non arrendersi. Ha portato la lettera a un CAF, dove hanno esaminato la sua situazione. Gli hanno spiegato che la restituzione dell’accompagnamento non è automatica. Se non c’è dolo o se il pagamento è avvenuto per errore dell’INPS, si può chiedere che il debito venga annullato. Oppure, in alcuni casi, si può ottenere una rateizzazione o una riduzione dell’importo dovuto.

La cosa più importante è capire che esistono strumenti per difendere i propri diritti. L’INPS è un ente pubblico, e anche le sue decisioni possono essere contestate, sempre nel rispetto dei tempi previsti. Giuseppe ora si sente meno solo: sa che ha una strada da seguire, e che non tutto è perduto.

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