Quanto vale davvero il tempo dedicato alla cura di un familiare con disabilità? E se il lavoro ostacola quella dedizione, chi tutela chi si fa carico ogni giorno di questa responsabilità?
La nuova sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea segna un cambio di passo importante.
Non si parla solo di diritti dei lavoratori con disabilità, ma anche di chi sta loro accanto, ogni giorno, senza clamore. Legge 104 e nuove tutele: qualcosa si sta finalmente muovendo.
Una decisione che cambia le regole del gioco sul posto di lavoro, ridando centralità alla persona e al suo tempo. Un segnale che arriva forte e chiaro anche alle aziende: ignorare chi assiste può costare caro.
Ecco perché non si tratta più solo di flessibilità, ma di rispetto.

Nella quotidianità ci sono gesti che non fanno rumore, ma che hanno un peso enorme. Portare un familiare a una visita, seguire una terapia, gestire una crisi improvvisa. Tutto questo spesso accade mentre, in parallelo, si deve rispettare un orario di lavoro, presenziare a una riunione, chiudere una scadenza. La Legge 104 ha rappresentato per anni un punto di riferimento per chi si occupa di persone con disabilità, ma la realtà si evolve e le tutele devono seguirla.
Chi si prende cura di un familiare non ha un contratto, ma un impegno continuo. Fino a oggi, le normative sul lavoro tutelavano chi aveva una disabilità, ma poco o nulla era previsto per chi offriva assistenza informale. Con la sentenza UE dell’11 settembre 2025, si è aperta una nuova pagina. I diritti si estendono, le barriere si allentano. E il concetto di discriminazione assume sfumature che impongono nuove riflessioni.
Una nuova tutela per chi assiste: il significato della sentenza europea
La sentenza C-38/24 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che anche i familiari che assistono persone con disabilità hanno diritto a turni flessibili e a modifiche dell’orario di lavoro. Si tratta di una vera estensione del concetto di “accomodamento ragionevole”, finora riservato ai soli lavoratori con disabilità.

Questo principio, sancito anche dalla Convenzione ONU, impone al datore di lavoro di considerare possibili adattamenti per favorire l’equilibrio tra impiego e compiti di cura. Naturalmente, tali richieste non devono comportare un onere sproporzionato per l’azienda. Ma il rifiuto ingiustificato può rappresentare una forma di discriminazione indiretta.
Un esempio concreto arriva da un’impiegata che chiedeva un orario ridotto per assistere il figlio disabile. L’azienda ha negato la richiesta senza proporre soluzioni alternative. Il tribunale, facendo riferimento alla sentenza UE, ha riconosciuto il diritto alla flessibilità, condannando il datore di lavoro. Questo dimostra come le aziende debbano agire in modo consapevole, aggiornando le proprie politiche interne.
Il vero cambiamento sta nella visione complessiva: non si protegge solo chi ha una disabilità, ma anche chi è direttamente coinvolto nel suo percorso quotidiano. È una forma di inclusione più completa e concreta, che riconosce l’impatto della cura familiare sul percorso professionale.
Lavoro, famiglia e diritti: un nuovo equilibrio possibile
Oggi la conciliazione tra vita privata e lavoro è diventata un’esigenza sociale e organizzativa. Per milioni di caregiver, l’assenza di flessibilità significa spesso dover scegliere tra lavoro e famiglia. La Legge 104, affiancata ora da questa nuova interpretazione europea, offre strumenti utili per riequilibrare questi due mondi.
Secondo i dati INPS, oltre otto milioni di italiani svolgono attività di assistenza informale a un parente disabile. Persone che spesso rinunciano a opportunità di carriera, ferie o perfino a un impiego stabile. Alcune realtà, come Poste Italiane, stanno già inserendo politiche aziendali che prevedono supporto concreto per i lavoratori caregiver, dai permessi personalizzati al lavoro da remoto.
Serve però anche un cambiamento culturale. Bisogna uscire dall’idea che prendersi cura di qualcuno significhi essere meno produttivi. Al contrario, chi vive questa esperienza acquisisce capacità umane e organizzative che arricchiscono ogni contesto lavorativo. Il vero nodo, quindi, è riconoscere il valore di questa esperienza e integrarlo in modo costruttivo.
È il momento di domandarsi se la flessibilità richiesta dai caregiver sia davvero un costo, oppure un investimento nel benessere e nella dignità del lavoro. Le leggi ci sono, le sentenze anche. Ora tocca alla società, alle imprese e alle istituzioni fare il passo successivo.