Pensione di reversibilità: spetta all’INPS pagare tutti gli arretrati per poi rivalersi, lo dice la Cassazione

Può davvero finire tutto con la fine di un matrimonio? E cosa succede quando la pensione di reversibilità entra in gioco tra ex coniugi e attuali compagni di vita? Una recente ordinanza della Cassazione cambia completamente le carte in tavola. Non si parla più solo di sentimenti, ma di diritti che resistono nel tempo. La pensione di reversibilità, spesso ignorata, diventa un nodo cruciale quando c’è di mezzo un divorzio. Ora la legge chiarisce chi deve pagare, quando e come. E soprattutto, mette l’INPS al centro di tutto.

Quando una persona muore, le conseguenze economiche per chi resta possono essere pesanti. In molti casi, la pensione di reversibilità rappresenta l’unico sostegno economico per chi ha condiviso una parte della propria vita con il defunto. Ma cosa succede se il defunto aveva più di un coniuge nella sua storia? È in questi casi che le cose si complicano.

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In particolare, quando l’ex coniuge ha diritto a una parte della pensione, spesso si apre una battaglia per il riconoscimento di quella quota. E finora, non era raro che venisse riconosciuta solo dal momento della richiesta formale. Ma questa prassi è stata smentita dalla Corte di Cassazione, che con l’ordinanza n. 23851 del 25 agosto 2025 ha stabilito un principio molto chiaro: la pensione di reversibilità all’ex coniuge spetta dal mese successivo al decesso del pensionato. Non serve una richiesta tempestiva, né una sentenza immediata. Il diritto esiste da subito.

La decorrenza del diritto è automatica e retroattiva

Il punto centrale della nuova ordinanza è il momento in cui nasce il diritto alla pensione di reversibilità. La Cassazione ha stabilito che l’ex coniuge ha diritto alla propria quota a partire dal mese successivo alla morte dell’ex partner. E questo vale anche se l’aumento della quota viene deciso solo anni dopo. L’INPS non può ignorare questo principio.

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La decorrenza del diritto è automatica e retroattiva-trading.it

Un caso emblematico ha coinvolto una donna che aveva ottenuto una quota maggiore solo in appello. I giudici inizialmente le avevano riconosciuto l’aumento solo dal momento in cui aveva fatto ricorso. Ma la Cassazione ha corretto il tiro: il diritto alla quota maggiorata esisteva fin dal decesso del coniuge, non dal giorno della richiesta. Questo cambia radicalmente il modo in cui l’INPS deve gestire questi casi.

L’ente previdenziale è obbligato a versare gli arretrati all’ex coniuge, anche se nel frattempo ha già versato tutta la pensione al coniuge superstite. La legge non lascia spazio a dubbi: la quota va riconosciuta per intero e con effetto retroattivo.

Chi paga gli arretrati e chi deve restituire le somme in eccesso

Una delle domande più frequenti riguarda chi debba farsi carico delle somme da restituire in caso di errore. La Cassazione ha risposto in modo netto: l’INPS deve pagare gli arretrati all’ex coniuge e poi può rivalersi sul coniuge superstite che ha ricevuto più del dovuto.

Il principio giuridico applicato è quello dell’indebito oggettivo, previsto dall’articolo 2033 del Codice Civile. Significa che chi ha ricevuto somme non spettanti deve restituirle. Ma a gestire tutto è l’INPS, non i singoli interessati. Non devono essere i due coniugi a confrontarsi tra loro. Questo evita ulteriori tensioni familiari e garantisce una gestione più ordinata.

La responsabilità dell’ente previdenziale è chiara: deve ricalcolare, versare ciò che spetta e avviare eventuali recuperi. Non può sottrarsi a questo compito. E per chi ha ricevuto importi superiori, è previsto un meccanismo di restituzione.

La sentenza della Cassazione ha il merito di riportare equilibrio e chiarezza in una materia che ha spesso generato contenziosi.

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