Cosa accade quando un’impresa cambia proprietà proprio mentre il vecchio titolare è in crisi? In molti casi il trattamento di fine rapporto sembra “fermarsi”, rimanendo sospeso fino a un momento ben preciso: la fine del rapporto di lavoro. È naturale chiedersi: chi paga davvero il TFR già maturato, soprattutto se il datore originario fallisce?
La trama che unisce cessione, passaggio dei dipendenti e liquidazione finale è più complessa di quanto sembri, con regole che cercano di bilanciare la continuità occupazionale e le garanzie economiche dei lavoratori. La giurisprudenza ha chiarito che, quando un contratto prosegue senza interruzione con il nuovo datore, il TFR non può essere subito reclamato.

In altre parole, il credito resta congelato, in attesa del momento in cui il rapporto si chiude davvero. È un meccanismo che protegge i lavoratori sul lungo periodo, ma che può sembrare penalizzante nell’immediato.
Il contesto normativo e la prosecuzione automatica del rapporto
La cessione d’azienda è disciplinata dall’articolo 2112 del Codice civile, che prevede che il contratto di lavoro non si interrompa con il cambio di datore. Questo vuol dire che il dipendente mantiene ruolo, anzianità e tutti i diritti acquisiti, anche se cambia il titolare dell’impresa. Ma cosa succede al TFR maturato fino a quel momento? Facciamo un esempio: un lavoratore di un supermercato appartenente alla società Alfa vede l’azienda ceduta alla società Beta.

Da un giorno all’altro cambia datore, ma resta al suo posto e con lo stesso contratto. Dopo pochi mesi, Alfa fallisce. Può chiedere il pagamento del TFR maturato durante il periodo in cui era dipendente di Alfa? La risposta è no. Secondo la Corte di Cassazione, il TFR non è esigibile perché il rapporto di lavoro non si è interrotto: continua semplicemente con Beta. Il credito quindi resta “congelato” e sarà pagato solo alla cessazione definitiva del rapporto con Beta. Questa regola può sembrare ingiusta, ma tutela un principio importante: la continuità del rapporto di lavoro. Se il TFR fosse liquidato ogni volta che un’azienda viene ceduta, si rischierebbe di trattare il dipendente come un rapporto “chiuso” quando in realtà non lo è.
Il ruolo del Fondo di garanzia e quando interviene
E se il datore fallisce? Qui entra in gioco il Fondo di garanzia dell’INPS, che serve proprio a proteggere i lavoratori dai rischi di insolvenza. Ma anche in questo caso ci sono regole precise: il Fondo paga solo quando il rapporto di lavoro è cessato e il datore al momento della cessazione è insolvente. Torniamo all’esempio di prima: se il lavoratore di Alfa continua a lavorare per Beta e solo dopo alcuni anni viene licenziato o va in pensione, sarà in quel momento che potrà chiedere il TFR, e se Beta fosse insolvente, interverrebbe il Fondo. Al contrario, se Alfa fallisce mentre lui è già passato a Beta, non può pretendere nulla dal curatore di Alfa né dall’INPS, perché il credito non è ancora esigibile. Questo meccanismo funziona come una tutela “differita”: il diritto c’è e resta integro, ma diventa azionabile solo quando il rapporto termina davvero. Anche eventuali accordi sindacali che provino a modificare questa responsabilità non cambiano le regole, perché il funzionamento del Fondo è fissato dalla legge.
Questa impostazione, pur complessa, offre una prospettiva interessante: il TFR non è solo una somma accantonata, ma rappresenta un legame diretto con la durata del rapporto. E spinge a chiedersi se, in futuro, sia possibile immaginare soluzioni che permettano ai lavoratori di valorizzare prima i propri crediti, senza snaturare il senso del TFR come “premio di fine lavoro”.