Un documento cartaceo può davvero decidere le sorti di un investimento? La recente sentenza del Tribunale civile di Pisa n. 344 del 28 marzo 2025 riporta sotto i riflettori i buoni fruttiferi postali e la loro natura giuridica. Un caso che coinvolge Poste Italiane, ma tocca anche il rapporto di fiducia che milioni di cittadini hanno con uno degli strumenti di risparmio più diffusi in Italia. Quello che è accaduto in questa vicenda non è solo un errore amministrativo, ma una questione di diritto che ha effetti concreti sul portafoglio degli italiani. E sul modo in cui vengono lette certe firme date allo sportello.
Un gesto semplice, quello di firmare un buono fruttifero. Lo fanno in molti, spesso senza leggere troppo. Il documento viene consegnato con un foglio informativo, l’operazione dura pochi minuti. Ma anni dopo, quando si presenta il titolo per la liquidazione, il rendimento può risultare diverso da quanto ci si aspettava.

È il caso di un cittadino di Pisa che ha ricevuto un buono della serie 18E, ma con un foglio informativo riferito a una serie diversa, più vantaggiosa. Una discrepanza che ha portato a una causa civile e a una decisione che potrebbe cambiare il modo in cui si interpretano questi strumenti.
I buoni postali non garantiscono un diritto autonomo
Il Tribunale ha stabilito che i buoni fruttiferi postali non sono titoli di credito, ma meri titoli di legittimazione. Ciò significa che servono solo a identificare chi ha diritto alla prestazione economica indicata, senza rappresentare un credito autonomo o trasferibile. Questa distinzione, stabilita dall’articolo 2002 del Codice Civile, è centrale nel decidere cosa valga davvero in caso di discordanza tra il contenuto del titolo e altri documenti.

Nel caso specifico, il buono apparteneva alla serie 18E, con durata massima di diciotto mesi e prescrizione decennale dalla scadenza. Il problema è sorto perché l’impiegato postale aveva consegnato al risparmiatore un foglio informativo relativo a una serie differente. Ma per il Tribunale, il valore del buono non può essere determinato da documenti esterni. Solo quanto riportato sul titolo, compresi timbro e firma, fa piena prova.
Il diritto al rimborso, inoltre, si estingue una volta superato il termine di prescrizione, anche se il titolare era in buona fede o ignaro della data. Questo chiarisce quanto sia importante leggere attentamente ogni elemento stampato sul buono al momento della sottoscrizione.
Il limite del principio di affidamento
Uno degli aspetti più significativi emersi dalla sentenza è il ruolo del principio di affidamento. Si tratta della fiducia che il cittadino ripone nelle informazioni ricevute allo sportello o nei materiali forniti da chi gestisce il risparmio. Ma i giudici hanno chiarito che questo principio non può essere invocato quando la legge prevede strumenti ufficiali di pubblicità, come i decreti pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale.
Il risparmiatore deve fare attenzione e verificare il contenuto del buono, che riporta già tutte le informazioni necessarie. Non basta affidarsi a un foglio informativo consegnato in buona fede se questo non corrisponde alla serie del buono emesso. La responsabilità dell’amministrazione, seppur reale, non può cancellare il valore formale del titolo.
Questo orientamento potrebbe sembrare rigido, ma risponde alla necessità di tutelare l’uniformità delle regole che governano questi strumenti. I buoni vengono emessi in serie, e ogni serie ha caratteristiche precise, rese pubbliche per legge. Lasciare spazio all’interpretazione soggettiva, o a errori di comunicazione, metterebbe a rischio la coerenza dell’intero sistema.
In fondo, questa vicenda spinge a riconsiderare il rapporto tra cittadini e strumenti finanziari. Anche quando sembrano semplici, come i buoni postali, richiedono consapevolezza e attenzione. Forse è il momento di iniziare a leggere davvero ciò che si firma.