Periodo di malattia: se non si rispetta la durata si rischia di perdere il posto di lavoro

Cosa accade se si superano i 6 mesi di malattia? Scatta davvero il licenziamento oppure è consentito assentarsi per più di 180 giorni?

Durante il periodo di malattia, il lavoratore ha diritto a conservare il proprio posto, a percepire la normale retribuzione (sotto forma di indennità corrisposta dall’INPS) e alla maturazione dell’anzianità e delle quote di TFR. L’assenza, tuttavia, non può essere a tempo indeterminato.

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Licenziamento – Trading.it

Uno dei dubbi più frequenti, infatti, riguarda le conseguenze dell’inosservanza delle regole relative al periodo di malattia. C’è davvero il pericolo di licenziamento? Analizziamo la disciplina di riferimento e scopriamolo.

Malattia e periodo di comporto: differenze

L’INPS fissa il limite massimo per la durata del periodo di malattia in 180 giorni, trascorsi i quali il lavoratore non può più continuare a percepire la relativa indennità.

Tale lasso temporale è calcolato sulla base dell’anno solare; se, dunque, l’assenza dal lavoro si verifica tra due anni consecutivi (per esempio, negli ultimi 4 mesi del 2023 ed i primi 5 mesi del 2024), all’interessato spetterà l’indennità per l’intero periodo.

Per stabilire le conseguenze del superamento del periodo di malattia, bisogna fare riferimento al cd. periodo di comporto. Si tratta dell’ammontare massimo di assenze consentite dalla legge. Ci sono due tipologie di comporto:

  1. comporto secco. I giorni non lavorativi vengono calcolati, per ciascun periodo, in maniera ininterrotta. Di conseguenza, tutte le assenze sono consecutive;
  2. comporto per sommatoria. Prende in considerazione il totale delle assenze effettuate per singole malattie (anche brevi), intervenute in uno specifico arco temporale.

È importante sottolineare che la durata del comporto non corrisponde alla soglia massima di 180 giorni l’anno per la malattia. Tale periodo è, di solito, molto più lungo, sulla base di quanto previsto dai singoli contratti collettivi.

Durata massima del periodo di comporto

La legge specifica il termine limite del periodo di comporto solo per gli impiegati. Esso non può essere maggiore di 3 mesi, per chi ha un’anzianità di servizio inferiore a 10 anni, e di 6 mesi, in caso di un’anzianità maggiore, fino ad arrivare a ben 3 anni, per le qualifiche più elevate.

Per tutti gli altri lavoratori, invece, la durata del comporto e la modalità di computo sono stabilite dai contratti collettivi nazionali. Nella maggior parte dei casi, si applica la sommatoria, che prende in considerazione le assenze effettuate in un biennio o un triennio.

Il comporto per sommatoria è utile anche per scoraggiare l’assenteismo; il lavoratore che ricorre alla malattia con frequenza, infatti, è consapevole del fatto che le astensioni saranno tutte calcolate alla fine.

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Quando è previsto il licenziamento?

Ma cosa succede se non si rispetta la durata massima di comporto? Il datore di lavoro non deve più preservare il posto al dipendente che, di conseguenza, potrà essere licenziato.

Nella lettera di licenziamento dovranno essere indicati con precisione tutti i giorni di malattia, per permettere l’accertamento dell’effettivo superamento del periodo consentito dalla legge e dai contratti collettivi. Il licenziamento disposto prima della scadenza del comporto è nullo, perché contrario a norme imperative di legge; il lavoratore, quindi, dovrà essere reintegrato nel posto di lavoro. Tale principio è stato precisato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Non si considerano nel comporto, infine, i giorni di quarantena e di isolamento per infezione da COVID.

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Come conservare i giorni di malattia?

Esistono due metodi per non consumare tutti i giorni di assenza per malattia a disposizione del lavoratore. Si, può, innanzitutto, interrompere il periodo prima della scadenza attraverso il godimento delle ferie già maturate. La richiesta va inoltrata in forma scritta.

L’alternativa più utilizzata per evitare di superare la soglia massima di comporto ed essere licenziati è, però, richiedere un ulteriore periodo di assenza: l’aspettativa non retribuita. Tale possibilità è, infatti, contemplata dalla maggior parte dei contratti di lavoro.

Con l’aspettativa ci si può assentare per massimo 2 anni (sia in maniera continuativa sia frazionata), mantenendo il diritto alla conservazione del posto di lavoro.

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